La maratona è una corsa affascinante non solo per gli
aspetti storici e romantici dell’impresa di Filippide (o chi mai fosse) ma
anche perché rimane ancora uno stress fisico non ancora completamente compreso
nelle sue dinamiche biologiche.
Nonostante i maratoneti siano stati oggetto di studi di
fisiologia e di meccanica neuromuscolare da più di 30 anni (vedi Cannon 1982),
il dato assodato è che attorno al 30° km, i livelli di glicogeno in molte fibre
muscolari tendano ad esaurirsi, in particolare quelli nelle fibre muscolari di
tipo 1. Queste fibre terminano di contrarsi per deplezione dell’ATP.
Se l'ossidazione, soprattutto da carboidrati, non può essere
mantenuta, il ritmo della corsa dell’atleta rallenta. Si è dato molto peso alla misurazione dei
livelli ematici di lattato per misurare la soglia aerobica nei maratoneti.
Questa soglia è diversa da atleta a atleta anche per motivi genetici e correla con
la VO2max. A differenza di quanto si
potrebbe credere, non sono i livelli di lattato a causare il senso di fatica
muscolare, ma il lattato è solo un indice dell’ alterazione nell’ossidazione
del glicogeno.
Scopo dell’allenamento specifico del maratoneta è quello di
incrementare la soglia aerobica, permettendo alla fibra muscolare di non
depletarsi di ATP e di “abituare” il mitocondrio ad usare non solo glicogeno ma
anche acidi grassi.
Quando le unità muscolari sono scariche di glicogeno e gli
acidi grassi non bastano a produrre energia, compare l’esaurimento tipico del
muro dei 30 km.
A questo modello di stress periferico muscolare si oppone recentemente
un modello centrale, in cui una situazione catastrofica di stress si verifica a
livello cerebrale con l’accumulo di cataboliti e di deplezione di
neurotrasmettitori.
Infatti, ci sono studi (riassunti in Noakes, Sports Medicine
2007) che indicano che tutto quello che si è pensato sullo stress muscolare del
maratoneta sia in realtà una parte del tutto e non la causa principale
dell’effetto di “colpire il muro”.
Ad esempio, è stato proposto che la fatica sia principalmente
un evento emozionale e non fisico. Basti pensare che esistono gare di
ultramaratona (100 km e oltre, spesso non stop) dove non si assiste di certo alla
decimazione degli atleti partecipanti,
che sono spesso “senior” o over 40.
Prove a sostegno di un controllo centrale della fatica
provengono anche da sport effettuati a alta altitudine, o in condizioni di alte
temperature, dove raramente si assiste a perdita di funzione di organo. In
tutti questi casi, l’esercizio fisico viene a essere terminato volontariamente
per dispnea ma non per inabilità specifica muscolare o cardiaca.
In questa situazione non è la periferia a comandare
l’arresto dell’esercizio ma il cervello che avendo accumulato diversi allarmi
di rottura di equilibrio (“omeostasi”), decide di dare origine al senso di fatica.
La fatica è peraltro modulata da fattori psicologici e emozionali,
dall’assunzione di sostanze chimiche che aumentano “la soglia” della fatica,
dalla sensazione di pericolo immantinente di vita e conseguente fuga dalla
catastrofe, dall’ipnosi o da altri fattori come la musica o distrazioni
emozionali. Peraltro, sensazioni di
fatica patologica si manifestano anche in particolari stati mentali, anche
senza necessità di un vero e proprio esercizio fisico massimale.
La fatica dunque è una sensazione che deriva sia dalla
percezione cosciente che dalla interpretazione subconscia di alcuni processi del
cervello, e non è quindi solo espressione di un evento fisico. Pertanto è
inutile studiare le manifestazioni della fatica muscolare in un sistema
isolato, privo di controllo della mente, per comprendere come si possa correre
più forte la maratona.
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