RECENSIONE : L'ARTE DI CORRERE
Lo scrittore giapponese Murakami, autore di romanzi molto
apprezzati dalla critica ma soprattutto dal pubblico, e in odor di Nobel da
almeno 4 edizioni, è stato un maratoneta e triatleta. Alcuni suoi spunti sono
raccolti nel saggio “L’arte di correre”.
A me “L’arte di correre” non è piaciuta. Non si tratta di
criticare il modo di scrivere di Murakami, quanto dei contenuti, letti da un
runner come lui.
Ho scritto Murakami “è stato” perché ha corso 24 maratone e
una ultramaratona tra i 33 e i 50 anni: Poi, a causa a suo dire, dEi mancati
miglioramenti, non ha più voluto correre le maratone e si è dato al triathlon,
con scarsi risultati.
Il libro non è un libro sulla corsa ma una sorta di breve autobiografia del Murakami scrittore et runner. I due filoni si intrecciano più
volte tant’è che in alcuni casi, si fa fatica a distinguerli l’uno
dall’altro. Murakami si applicava ad
entrambe le attività con costanza: si metteva alla scrivania per scrivere e si
allenava tutti i giorni. Le due cose non sono distinte: Murakami stesso scrive
che è seccato che gli si faccia notare che “ se continuerà a condurre ogni
giorno questa vita sana, mi sa che prima o poi perderà la vena
letteraria”. Lui lo considera uno
stereotipo sbagliato. Concorda che fare lo scrittore è una attività malsana
perché “estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del
nucleo emotivo dell’essere umano”.
“Comunque la si giri – scrive ancora Murakami – è un po’ come come quando si
dice che la parte più buona del pesce palla è quella più vicina al veleno”.
Molto interessante. Potrei aver inteso che Murakami scrive
perché corre, perché più avanti dice che “la scrittura deve essere una forza
vitale che tende naturalmente in avanti” (…), vincere e perdere contro me
stesso: esistono soltanto due possibilità”. Come nella corsa, penso come
lettore. Invece, purtroppo, il paragone, rimane abbozzato, ma non prende affatto
forma. Anzi, Muramaki, spegne piano piano il filone del running, con molto dispiacere mio
e di chi legge “l’arte di correre” come un saggio sulla corsa, scritto da uno
scrittore.
Peraltro le esperienze di corsa di Murakami, non
coinvolgono. Descrive bene la sua prima maratona nel 1983, che non è neanche
una gara, ma il tragitto Atene-Maratona (quindi al contrario) corso in perfetta
solitudine, sotto il sole del luglio greco. Qui Murakami fa la figura
dell’ingenuo, perché non solo non si è preparato sufficientemente
sull’itinerario di corsa, ma corre anche ustionandosi la schiena sotto il sole. Ostinato ma patetico. Non sa neanche se abbia
percorso esattamente 42195 metri. Il lettore concepisce l’evento a significato
simbolico, e va avanti nella lettura. La maratona successiva, la prima
ufficiale, è quella di Honolulu. “Anche alle Hawaii faceva caldo ma in confronto
all’estate di Atene era una sciocchezza”. Ok, tutto qui?
Il capitolo più entusiasmante è quello sull’ultramaratona di
Hokkaido. Qui Murakami fa un peccato di superbia e calcola di correre a 6’ km,
più o meno (non lo dice), il suo ritmo maratona + 30”. Al 55° km le gambe gli diventano dure e per
20 km “è un vero supplizio”.
Nella ultramaratona gli aspetti più interessanti
sono della descrizione delle sensazioni del corpo durante uno sforzo del
genere. “Mentre correvo, diverse parti del corpo hanno cominciato ad accusare
dolore, una dopo l’altra. Si alzavano a turno – prima la coscia destra, poi il
ginocchio sinistro, poi la coscia sinistra… - e si lamentavano a gran voce”.
Poi descrive una sorta di “sballo del corridore” : “verso
il 75° chilometro ho sentito che venivo fuori da qualcosa. L’ho percepito
chiaramente. (...) come se il mio corpo fosse passato attraverso un muro di pietra e
fosse uscito dall’altra parte”. E mi sono reso conto che ero finalmente libero.
Questa la parte più bella che dura 20 righe, troppo poco per appassionarmi di un libro da
cui mi aspettavano molto di più.
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